E continuiamo più o meno sulla stessa falsariga. Qui si parla del cosiddetto “mero effetto di esposizione” (mere exposure effect) ovvero la tendenza a provare simpatia per alcune cose solo per via della loro familiarità.
Potremmo anche chiamarlo “il richiamo della comfort zone”, per quanto mi riguarda. E sappiamo bene quanto può essere difficile uscire dalla propria comfort zone. Quindi tendiamo ad avere oppure a sviluppare più facilmente una preferenza per le persone, per le cose, per le situazioni semplicemente perché le conosciamo già.
Gli esempi nella vita quotidiana sono estremamente frequenti, praticamente viviamo immersi in questa distorsione. Ti capita di sentire una canzone alla radio e non ti piace, la senti di nuovo, la senti di nuovo, la senti di nuovo e a forza di sentirla alla fine ti piacerà. Perché? Perché la conosci, ti risulta orecchiabile, inizi a conoscere il testo, magari non faceva così schifo nemmeno la prima volta ma hai imparato ad apprezzarla col tempo.
Facciamo un altro esempio: vai in un certo ristorante e ordini un certo piatto, tipo i gamberoni al brandy (buoni i gamberoni al brandy). Se ti capita di tornare nello stesso ristorante, la scelta del piatto che ordinerai potrebbe essere influenzata dal fatto che in precedenza hai già mangiato i gamberoni al brandy. Potresti voler provare un altro piatto per curiosità, certo. Ma potresti anche ordinare di nuovo i gamberoni al brandy.
Non è rarissimo che si vada in un certo locale e si provi piacere a prendere sempre lo stesso cibo, lo stesso vino o lo stesso cocktail. E non accade solo perché magari era molto buono o perché ti ricorda una serata particolarmente piacevole. Fa parte della tua comfort zone. E ci si sta benissimo, è appunto “confortante” e “confortevole”, è rassicurante, non si rischia molto, anzi praticamente nulla.
L’effetto di esposizione risulta molto comodo anche quando si sta cercando di superare una fobia. Prendiamo, per esempio, l’aracnofobia o fobia dei ragni. Puoi cercare di vincere questa paura andando per gradi. Iniziare dalla foto di un ragno è in genere una buona idea.
Una volta presa confidenza con la foto puoi provare a osservare un ragno da lontano, da una distanza che ti faccia sentire al sicuro.
Una volta abituato alla vista del ragno da lontano puoi provare ad avvicinarti in modo graduale. Piano piano diventerà normale stargli vicino e forse anche toccarlo.
Il mero effetto di esposizione nel marketing
Torniamo su roba già citata, anche se da un punto di vista leggermente differente. Pensiamo a uno spot radio o televisivo (oppure al product placement) che ci diventa giorno dopo giorno più familiare, magari con un jingle o uno slogan che funziona: ha buone possibilità di risultarci sempre più piacevole, se non esagera con le ripetizioni e se non abbiamo motivi personali per provare antipatia nei suoi confronti.
Vedere spesso un certo brand nelle pubblicità sulla carta stampata, nei cartelloni sulle strade o in qualche espositore nei negozi lo rende una cosa abituale e la nostra mente è portata a non considerarlo più un “estraneo”. Anche questo potrebbe farcelo piacere. E lo stesso dicasi per il packaging dei prodotti o per le buste che riportano il logo dell’azienda.
Il digital marketing è pieno di esempi simili. Le campagne di email, sebbene siano considerate un po’ da tutti datate e obsolete, ti fanno sentire il brand vicino, ti fanno sentire considerato. E dato che arrivano con una cadenza regolare, possono anche beneficiare del mero effetto di esposizione. E non è diverso per le varie pubblicazioni fatte sui canali social. Infatti, in genere si consiglia alle aziende di pubblicare in modo ordinato, costante, regolare.
Alla fine della fiera, la verità è che tutti i brand (e sottolineo tutti) un tempo sono stati sconosciuti, anche quelli più famosi che oggi fatichiamo a immaginare non-famosi. Piano piano sono entrati nel nostro immaginario e ci si sono accoccolati. Sarà stato solo per la qualità dei loro prodotti? Permettetemi qualche dubbio.
Il mero effetto di esposizione nella disinformazione
Qui si aprono davvero le gabbie. Alzi la mano chi non ha mai provato l’esperienza di vedere una stupidaggine falsa come una moneta da tre euro ripetuta e condivisa da mandrie di minus habentes, sedicenti ricercatori, persone che si informano etc.
La ripetitività dei contenuti, in combinazione con un’idiozia non indifferente e che deriva da deficit sia mentali sia culturali, è in grado di minare velocemente le menti più fragili. Una fake news condivisa da una persona è poca cosa ma se viene poi ripubblicata da migliaia di utenti può diventare pericolosa.
Ricordiamoci delle echo chamber e del fatto che molti di questi stonati da competizione vivono dentro a bolle costituite da persone con cui condividono molti deliri e che in Pagine e Gruppi di tipo complottista le condivisioni sono in media più numerose che altrove. Vale per i post, vale per gli screenshot, vale per i meme.
In più ci si mettono anche falsi “quotidiani” (o riviste scientifiche) che nel nome contengono parole chiave come “24”, “news”, “notizie”, “liberi”, “verità” “matrix” e che sono creati ad arte per risultare credibili come quelli veri, Anzi, per i complottari molto di più perché sono quelli veri.
Ricordiamoci anche che purtroppo questo tipo di contenuto riscuote un enorme successo, grazie anche agli utenti non scemi. Uno condivide una bufala sulla Terra piatta, i terrapiattisti accorreranno urlando che è la verità e noncielodikono mentre le persone normali giustamente si incazzeranno di brutto e inizieranno a offendere e a commentare pesantemente.
La conclusione spesso è che la gente normale rischia di essere bloccata dal social (ho passato più tempo nella “prigione” di Facebook che fuori) e concorreranno alla diffusione di questo schifo perché Meta, Twitter/X o altri non fanno differenza fra commenti a favore e commenti contro. Per loro è solo puro engagement e con l’engagement questa gente ci fa tanti, tanti soldi.
Subiscono un destino simile anche le catene similsantantonio che vengono inviate e inoltrate dai fessi, pensando di aver avuto accesso a chissà quali verità nascoste e che loro ovviamente hanno il dovere di divulgare il più possibile. Anche qui è l’ego che li frega. Penso di essere un prescelto, di possedere una conoscenza superiore, di essere al corrente di fatti che gli altri non sanno. E mi sento figo perché sono colui che illuminerà il percorso oscuro di chi ancora non è al mio livello. Mi sento un vate e invece sono purtroppo un water.
Non voglio parlare di politica in questo libro però, maremma infiammata… Mi sono occupato di comunicazione politica per anni, non sono digiuno sull’argomento e so come funziona.
Diciamoci la verità: questi porcai in genere vengono condivisi da gente di centro-destra, destra estrema o grillini. Ultimamente si sono aggiunti anche i geni di estrema sinistra che, come abbiamo sempre detto con il mio amico Carlo, sono talmente di sinistra da fare il giro e rientrare da destra perché gli estremi sono sempre una cosa di basso livello.
Vogliamo forse negare che tra gli eletti dei Cinque Stelle ci fossero dei deficienti che credevano (credono?):
- alle scie chimiche
- alle sirene
- al complotto per i chip sottocutanei
- alla correlazione fra vaccini e autismo
- alla Terra piatta
- alla cupola ashkenazita che controlla il mondo
- MUOS
- giganti
- HAARP
- MK-ULTRA
- Gesara
- signoraggio
- vari false flag e compagnia cantante?
E vogliamo forse negare che la destra ci rompe le palle da anni con:
- complotti per la sostituzione etnica
- il piano Kalergi
- Obama che non è americano
- l’islamizzazione dell’Europa
- il gender che corrompe i bambini
- la cancel culture
- la donna che non sta più in casa ai fornelli
- ci vogliono proibire di festeggiare il Natale
- il Covid è una bufala
- Bill Gates è un mostro
- i messaggi IT-ALERT servono per piegarci ai poteri forti etc?
E dai, su. Un minimo di onestà intellettuale. Questo è il livello medio della gente sui social e chi scrive questa roba lo sa bene. E lo sa anche utilizzare per i propri scopi.
Il mero effetto di esposizione nella vita sentimentale
I benefici di una frequentazione assidua sia nell’amicizia sia nelle relazioni amorose non mi sono particolarmente chiari perché sono un orso che ama stare da solo almeno quanto ama vedere (con moderazione e a intervalli consoni) le persone.
Ma è vero e dimostrato più volte che passare del tempo con gli amici o la famiglia del partner fa bene al rapporto, lo irrobustisce. Anche tenersi per mano e coccolarsi in realtà rientra in questo effetto perché incrementa il senso di abitudine, fondamentale per la conoscenza.
Vivere insieme permette di vedersi spesso e di mettere a nudo le proprie routine, creando familiarità fra i due soggetti e aumentando il senso di sicurezza. E si può dire lo stesso del fatto di condividere interessi e hobby, cosa che aiuta moltissimo a migliorare la connessione, oppure del viaggiare insieme che costringe a una serie di ulteriori quotidianità ravvicinate.
Anche le persone che si sentono spesso telefonicamente (o tramite sistemi di messaggistica sincrona come Whatsapp o Telegram) condividono pensieri, emozioni ed esperienze praticamente in tempo reale. Questo rende più forte la loro connessione emotiva.
Fra l’altro, nelle relazioni interpersonali si può dire che si diventa amici col vicino di casa perché si vede spesso. Si può anche dire che ci si innamora di una persona con la quale si passa molto tempo, prendiamo per esempio due colleghi che devono lavorare per un periodo a stretto contatto. Esiste addirittura uno studio che ha dimostrato come in una classe liceale si vedessero come più attraenti le persone che frequentavano di più le lezioni.
E si può anche dire che il divorzio risulta meno traumatico se si sta già vivendo separati da un certo tempo. Perché quell’abitudine di non incontrarsi più genera una nuova familiarità, una nuova “esposizione” ovvero quella della non-esposizione del partner. Ci si abitua a non vederlo, diventa consueto non incontrarlo e non interagirci. Quando poi la separazione diventerà definitiva e ufficiale, sarà solo un passaggio già assimilato e digerito dalla nostra mente che si è già abituata a una nuova routine.
Estratto da “L’arte delle fregature” di Lamberto Salucco