Il divario di empatia (empathy gap) è la tendenza a sottovalutare la forza dei propri sentimenti e l’influenza che le pulsioni viscerali avranno sia su sé stessi sia sugli altri. Ma può anche riguardare l’essere “prigioniero” dello stato attuale delle cose ovvero pensare che una sensazione a breve termine rifletta invece le preferenze e gli atteggiamenti a lungo termine.
Gli esempi possono essere tanti. Ti trovi al funerale di una persona a te molto cara che purtroppo è venuta a mancare. In quella triste situazione potresti pensare che non sarai mai più felice in tutta la tua vita mentre in realtà la tua tristezza col tempo diminuirà fino (si spera presto) a svanire.
Un altro esempio potrebbe essere quando durante una conversazione fra amici e tutto va bene affermiamo di essere in grado di reggere senza problemi situazioni stressanti e di poter lavorare sotto pressione.
A me viene sempre in mente quando qualche fenomeno urla dal divano contro campioni professionisti di uno sport cose senza senso tipo “Quello lo segnavo anch’io!” o altre amenità, magari quando alla finale della Coppa del Mondo di calcio un giocatore sta per tirare il decisivo calcio di rigore.
Accade la stessa cosa quando pensiamo di poter rinunciare con grande facilità a una qualunque sostanza se ne abbiamo appena assunto un quantitativo sufficiente. Per esempio, rinunciare alla caffeina quando abbiamo appena preso un caffè o alla nicotina dopo aver spento una sigaretta.
In genere vengono definiti stati freddi (quando siamo rilassati e senza problemi) e stati caldi (quando siamo preda di un sentimento che ci accende).
E ovviamente è come se fossero due persone differenti che a malapena sanno della reciproca esistenza. Il “caldo” non capisce il “freddo” e viceversa ma particolarmente difficile è per il “freddo” prevedere cosa farà il “caldo” in situazioni stressanti.
Allargando il concetto, possiamo anche parlare di empathy gap generazionale fra gli anziani e i giovani, di empathy gap culturale fra popoli diversi per religione e/o cultura o di empathy gap personale quando chi ha vissuto una certa esperienza non concepisce che gli altri non sappiano di cosa stia parlando.
Il divario di empatia nel marketing
Chi si occupa di marketing spesso utilizza la FOMO (Fear Of Missing Out) per incentivare le vendite, creando la sensazione che l’utente si perderà qualcosa di prezioso o esclusivo se non agisce immediatamente.
Riassumiamo brevemente cos’è la FOMO. Si tratta di un fenomeno psicologico a mio parere molto sottovalutato, amplificato dal nostro modo di vivere “digitale” e dai social media. È l’ansia o la paura di perdersi eventi sociali, opportunità o esperienze interessanti o divertenti che gli altri stanno vivendo. La FOMO può anche influenzare decisioni e comportamento, specialmente riguardo a connessioni sociali e attività.
Il divario di empatia entra in gioco quando un individuo, che in questo momento non sta sperimentando la paura o l’ansia associata alla perdita di qualcosa (“freddo”), sottovaluta quanto saranno forti queste emozioni in futuro (“caldo”). Di conseguenza si può sottovalutare l’impatto della FOMO su sé stessi, pensando di esserne immuni. Invece potrà capitare di prendere decisioni che daranno priorità a una gratificazione istantanea, immediata rispetto a considerazioni a lungo termine.
Detto ciò, c’è tutto un mondo di incomprensioni fra utente e produttore o fornitore che non verrà mai davvero risolto. In pratica stiamo parlando non solo del divario di empatia propriamente detto ma anche di quanto sia difficile immedesimarsi nei panni di un’altra persona e capirne ragioni e difficoltà.
Pensiamo, per esempio, a quanto un cliente fatichi per comprendere il prezzo deciso da un’azienda per un bene o per un servizio. Quando siamo noi a dover decidere il costo di una prestazione sappiamo benissimo lo sforzo e i retroscena che stanno dietro a un semplice prezzo: se un docente fa lezione a € 30 l’ora può anche chiudere baracca. Le tasse e annessi, i costi per la benzina, l’autostrada, il materiale didattico, il ristorante non vengono mai calcolati da chi deve pagare. In realtà, per guadagnare realmente € 30 deve fatturarne almeno 70.
Quando dobbiamo acquistare un certo oggetto, difficilmente faremo il conto di quanto sia davvero costato alla ditta che l’ha prodotto. E questo perché non siamo portati a capire le ragioni degli altri. Ci interessa fare l’affare, guadagnare bene, spendere poco, non fare la figura dei fessi e ottenere il massimo. Ma questo non è sempre possibile, anzi quasi mai.
E poi abbiamo anche quella che io chiamo la sindrome di Masterchef. Ci piace criticare, fare i giudici tipo Italia’s Got Talent, lo si nota in qualunque Gruppo Facebook dedicato a Netflix, Disney+, Prime Video etc. Gente senza alcuna competenza in materia che deride prodotti costati milioni perché i signorini non sono stati sufficientemente intrattenuti. Ma chi cazzo sei? Il figlio del re? A nessuno frega nulla del tuo parere, a nessuno tranne alla gente come te che prende i social come un luogo dove vomitare le proprie frustrazioni. E purtroppo stiamo rischiando che questa gente diventi la maggioranza a causa dell’eccessivo permissivismo e del voler soddisfare qualunque capriccio di figli, nipoti, fidanzati etc. Ma sto uscendo dal seminato.
Sempre riguardo al mondo del marketing potremmo fare l’esempio inverso, sulle recensioni scritte dai clienti. Capita di leggere commenti e pareri che non tengono per niente in conto quanto frustrante sia il lavoro di chi si occupa di relazioni coi clienti. Ma capita anche di leggere risposte del customer care che non tengono per niente in conto quanto frustrante sia l’esperienza di una persona che ha acquistato qualcosa e questo qualcosa non funziona.
E la lista potrebbe durare all’infinito:
- i creativi pubblicitari possono sottovalutare l’impatto di una campagna che magari risulta offensiva per determinate categorie
- i clienti possono non capire gli sforzi che un’azienda sta facendo per comunicare con gli utenti
- un’azienda può sminuire le preoccupazioni delle persone riguardo alle questioni ambientali
- gli utenti possono sminuire i passi che un’azienda compie per diventare ecosostenibile.
Brand e clienti possono praticamente fraintendersi a vicenda su tutto, teniamolo presente quando giudichiamo gli altri.
Il divario di empatia nella disinformazione
Anche qui ci sono moltissimi esempi alcuni dei quali mescolano, com’è normale che sia, questo bias con altri.
Probabilmente quelli più interessanti riguardano la famosa narrazione “noi” e “loro” che sta alla base di qualunque porcheria sia mai stata commessa da essere umano dalla notte dei tempi fino ai giorni nostri. Da qui, il passo per arrivare alla cosiddetta disumanizzazione del nemico è decisamente breve, interessante anche un libro di David Livingstone Smith sull’argomento. Pensiamo a come i nazisti trattavano gli ebrei o a come gli Hutu trattavano i Tutsi in Ruanda. E gli esempi potrebbero tornare indietro fino all’antica Mesopotamia senza risparmiare nemmeno un angolo di Terra.
È uno schifo che fa parte del nostro DNA, ce l’abbiamo dentro. Come quando denigriamo l’interlocutore solo per sminuire ciò che sta dicendo. Magari ha ragione e non lo voglio ammettere e allora giù col body shaming, col ritirare fuori avvenimenti di decenni prima, con la derisione che cerca di delegittimare quello che non riesco a contrastare coi fatti.
Proprio come fanno i deficienti che mettono la risata sotto ogni post che non capiscono o che non approvano. L’ultimo scalino della regressione, il famoso homo ridens: la merda.
Poi ce ne freghiamo di tante altre cose. Tipo: delle fake news non ce ne sbatte molto se non pensiamo che possano danneggiare noi. Se qualcun altro ci casca siamo i primi a dire “Selezione naturale!” oppure “Dai, ma come si fa??? Gli sta bene”. Ed è ovvio che quando ci cadiamo noi, la cosa è molto diversa e la raccontiamo (e ce la raccontiamo) in modo molto diverso. Fondamentalmente siamo solo degli egoisti e questo non è per forza collegato ai bias cognitivi, magari siamo solo stronzi. E non solo. Quando a farne le spese è qualcun altro, minimizziamo la portata del fenomeno mentre quando capita a noi è sempre una tragedia infinita.
Talvolta si arriva anche a giustificare chi condivide bufale varie, fregandosene delle conseguenze che tale comportamento ha sulle persone, in particolare su quelle più deboli e manipolabili che dovrebbero preoccuparci di più. Invece tendiamo a non occuparcene più dello stretto necessario.
Quando poi si parla di politica diventa ovviamente tutto più polarizzato. Chi ha idee diverse dalle tue fatica molto a comprendere le tue convinzioni, le fonti che tu pensi che siano affidabili, il modo di porsi rispetto alle questioni internazionali, i valori di riferimento che ritieni importanti etc.
Talvolta l’empathy gap in comunicazione politica viene usato anche per mettere in luce un determinato aspetto di un personaggio in vista come un candidato alle elezioni. Generare empatia intorno a una figura rientra fra i compiti di chi si occupa delle campagne elettorali, spin doctor, responsabili della comunicazione e altri mostri.
Il divario di empatia nella vita sentimentale
Nelle relazioni amorose il divario di empatia entra in gioco in situazioni e fasi precise, è abbastanza riconoscibile. Per esempio, all’inizio di una storia d’amore, le cose vanno in genere così bene che si tende a sottovalutare qualunque tipo di caratteristica negativa del partner. Siamo felici e contenti quindi vedo quel difetto gigantesco ma non mi pare poi così gigantesco. Ovviamente i miei amici non la pensano allo stesso modo perché (loro) non sono rincoglioniti dalla dopamina che ci frulla ovunque.
Una cosa simile accade anche quando perdoniamo il partner per una cosa poco carina che ha fatto per l’ennesima volta. Nella fase di perdono e di riconciliazione ci può capitare di essere molto coinvolti dalla sensazione positiva di risoluzione del conflitto e quindi sottovalutiamo il fatto in sé, la frequenza con cui tale errore viene ripetuto. E anche l’impatto che questo tipo di comportamento avrà sulla relazione.
Ma avvengono anche altre situazioni come quando uno dei due partner sperimenta un periodo di particolare eccitazione sessuale o un incremento di tenerezza e l’altro no. Quindi non riesce a capire la situazione e a entrarci in sintonia.
E qui parliamo di cose belle, serene. Pensiamo a quali casini potrebbero nascere durante una litigata seria, in momenti di vero stress o nelle relazioni a distanza in cui ci si incontra molto raramente e dove tutte le varie comunicazioni passano da strumenti più o meno digitali dove il fraintendimento è quasi certo, come i messaggi Whatsapp. Non è un problema da poco.
Estratto da “L’arte delle fregature” di Lamberto Salucco