E siamo arrivati alla fine del secondo capitolo. Giusto per finire in bellezza e fare una gran bella festa, parliamo di pessimismo cosmico…
Il bias della negatività (negativity bias o negativity effect) è il fenomeno per il quale si dà maggior peso agli aspetti negativi rispetto a quelli positivi, anche riguardo alla memoria. I ricordi spiacevoli risultano più “forti” da notare e da ricordare di quelli positivi.
Chiaramente c’è un motivo pratico. Migliaia e migliaia di anni fa, per i nostri antenati era decisamente meglio sbagliarsi e confondere una roccia per un orso piuttosto che un orso per una roccia. Il proverbiale “meglio aver paura che buscarne”. Troverete questo esempio citato ovunque, non è bellissimo ma credo che sia calzante.
Vediamo spesso in azione questo bias. Abbiamo l’impressione che telegiornali e quotidiani diano solo brutte notizie, alimentando la percezione complottista che “ci vogliono terrorizzare e così inventano sempre qualche tragedia”.
Pensiamo anche all’impatto che ha sulla nostra memoria un evento pericoloso o anche ricevere la notizia di una tragedia. Quando ci chiedono “cosa stavi facendo quando hai saputo dell’attacco dell’11 settembre?” è semplice rispondere ma invece risulta complicato ricordare quando abbiamo fatto la spesa l’ultima volta.
Chi si occupa di comunicazione politica sa bene quanto sia difficile riequilibrare una situazione difficile quando si sta affrontando una crisi. Si dice che servano cinque notizie positive per bilanciare una notizia negativa. Forse si tratta di un’esagerazione ma è vero che, per un politico professionista, è sufficiente un singolo evento negativo per rovinare i risultati alle prossime elezioni, anche se tutta la sua carriera è stata fino a quel momento immacolata.
Ed è vero anche che un utente farà particolare attenzione alle recensioni negative invece che a quelle positive. E qui la cosa diventa importante perché il modo in cui un’azienda gestirà le crisi e risponderà alle critiche e alle lamentele potrebbe fare la differenza e ribaltare il problema trasformandolo in un’opportunità. Ti stai giocando la cosa più importante per un marchio: la reputazione. Gestire bene una crisi significa proteggere la reputazione e mitigare il danno d’immagine, dimostrando impegno per migliorare e onestà.
Ecco perché è fondamentale, in caso di problemi gravi come il richiamo di prodotti difettosi o come un data breach in seguito a un attacco informatico, ammettere pubblicamente il problema e fare un comunicato per spiegare e per scusarsi con i clienti.
Il bias della negatività nel marketing
La negatività e il pessimismo sono motori potenti, il marketing non può permettersi di non sfruttarli a proprio vantaggio.
Un esempio fondamentale di questo è il marketing basato sulla paura. Perché i cari complottisti sono stupidi ma, proprio come un orologio rotto dice l’ora giusta due volte al giorno, anche loro su una cosa hanno ragione. Esiste la manipolazione mediante la paura, peccato che loro non capiscano una seganulla e quindi puntino sempre il dito nella direzione sbagliata. Ma è innegabile che esista e chi si occupa di comunicazione lo sa bene.
Potremmo fare l’esempio di uno spot televisivo o di una campagna su carta stampata che elenca i pericoli di salute o di sicurezza che si possono presentare se non si usa un certo prodotto, lasciando solo sottintendere che senza quel prodotto l’utente è a rischio.
In modo meno traumatico è possibile sfruttare il bias della negatività per far ricordare un messaggio agli utenti a partire da un evento negativo. E proponendo poi la soluzione positiva tipo: “pensa a quando ti è successa questa cosa, da oggi puoi provare questo prodotto”.
Fanno parte di questo ambito anche le cosiddette tecniche per evitare le perdite. Qui i bias in realtà si mescolano ancora di più e non è affatto la prima volta. Ma diciamo per semplificare che la gente è più interessata a non perdere ciò che ha, rispetto a guadagnare cose nuove. Se la comunicazione di un certo brand punta su messaggi tipo “Non perderti questa offerta” o “Ultima occasione per non mancare la cosa X” ecco che sta in parte giocando sul negativity bias.
Il bias della negatività nella disinformazione
In buona sostanza, la disinformazione presenta contenuti negativi sensazionalistici in modo estremamente furbo. Apposta per innescare reazioni come ansia, rabbia, disgusto e l’immancabile indignazione invece di stimolare un’analisi intelligente.
Ciò che dovremmo fare noi, esseri umani dotati di un quoziente intellettivo superiore a 30, è cercare di controbilanciare questa robaccia con ragionamenti e discussioni più pacate. A me non riesce. Io urlo, mi incazzo, segnalo e vengo segnalato, blocco e vengo bloccato. Ma sono cosciente del fatto che mi dovrei comportare in un altro modo, semplicemente non mi riesce. Ma se a voi riesce, fatelo. Sinceramente vi invidio.
Comunque, gli esempi del bias della negatività sono davvero infiniti nel fantastico mondo delle fake news. Ogni volta che si fa leva su una notizia che riguardi una crisi, un disastro, una questione che generi ansia, quando si parla di una malattia in modo allarmistico o di un pericolo imminente, quando queste notizie gonfiate toccano uno dei tuoi tanti nervi scoperti, una delle paure che ti porti dietro da quando eri piccolo. Ecco che il bias della negatività sta lavorando a pieno ritmo.
Ovviamente, mettere foto ultra drammatiche di tragedie terribili fa leva su questo bias. E lo stesso dicasi per:
- video o racconti di extracomunitari che commettono violenze di ogni tipo
- per miliardi di persone morte a causa del vaccino o del 5G
- per crimini che avvengono raramente ma che vengono presentati come molto frequenti
- per candidati politici che vanno a scavare nella vita dei rivali e che prendono un singolo avvenimento costruendoci intorno una narrazione gigantesca mirata a screditare la persona.
Teniamo sempre presente che la roba negativa ha una capacità di diffusione più alta di quella positiva. Condividere una tragedia o un rischio, nella mente di un utente standard è più importante perché avendo carattere di urgenza e di gravità glielo fa percepire come più “serio”. E crede che la propria reputazione otterrà un vantaggio se sarà il primo (o fra i primi) a parlarne. Si sente un po’ come una sentinella a cui non sfugge nulla di rilevante, un investigatore privato, un debunker esattamente come quelli contro i quali si scaglia quotidianamente solo perché lo sbugiardano e svelano le puttanate alle quali crede. Un paradosso ridicolo che non ha purtroppo soluzione.
Il bias della negatività nella vita sentimentale
Anche la vita sentimentale subisce gli effetti del negativity bias e gli esempi sono numerosi. Vediamone insieme qualcuno, ben consci che su questo argomento andrebbe scritto un intero libro a parte.
Nella fase del corteggiamento, quando ancora la coppia non si è formata e uno dei due individui cerca di conquistare l’altro si potrebbero verificare comportamenti che rientrano in questo ambito. Uno dei due è spesso ansioso per quelli che ritiene sintomi di disinteresse oppure è sospettoso riguardo alle intenzioni dell’altro e vede tutto nero. Oppure è molto diffidente e non si fida di gesti gentili e regali perché possono nascondere un secondo fine.
Quando la relazione è avviata, uno dei due partner potrebbe interpretare le imprecisioni e gli errori dell’altro come mancanza di impegno e di volontà, vedendo in generale sempre il lato peggiore delle cose oppure sospettandolo continuamente di infedeltà.
Nelle discussioni, poi, una persona pensa sempre che l’altra sia arrabbiata anche se esprime pensieri legittimi. Dopo la discussione pensa che l’altro nasconda qualcosa, che stia mentendo o comunque dà più peso ai punti negativi che sono stati oggetto della lite invece di considerare i progressi ottenuti con lo scambio di idee.
E poi c’è la madre di tutte le negatività. Il ruminare troppo sulle questioni. Quando i pensieri negativi ti entrano nel cervello e inizi a rimuginarci giorno e notte non può mai nascerne niente di buono. Queste cose vanno evitate come la peste e, data la loro pericolosità, risolte prima che diventino ossessioni nocive per ogni aspetto della vita.
Estratto da “L’arte delle fregature” di Lamberto Salucco