I L.E.S. sono una band proveniente dalla Toscana, più precisamente da Firenze! Il nome della band è l’acronimo di Lazzeri, Ermini e Salucco (i tre membri del gruppo). La scelta stupisce in quanto ad originalità. A mio parere sarebbe stato bello avere qualcosa di più studiato del tipo Litfiba o P.F.M. per intenderci.
A prima vista l’album si presenta come un progetto ambizioso e studiato nei dettagli; l’artwork della copertina è ben realizzato e a tema con il concept, e il booklet risuta ben articolato con tanto di testi. L’album proposto si intitola “Metempsicosis” (passaggio delle anime) e come avrete già intuito si tratta di un concept album.
La scelta è coraggiosa e a prima vista si direbbe essere alla portata del trio toscano, che con più di dieci anni di esperienza si cimenta nella terza opera in studio. Il motivo conduttore del concept è la trasposizione dell’anima attorno a cui ruotano violenza, amore, arte e morte; tale scelta va premiata per il coraggio e la difficoltà dei temi trattati, ma non è nuova in ambito di “concept album del progressive”.
Sorgono spontanee e lampanti due citazioni:
1) L’auto-riflessivo capolavoro dei Fates Warning “A pleasant shade of gray” in cui l’orologio introduce e conclude l’album composto da un’unica canzone divisa in dodici parti secondo il sistema numerico addittivo dell’antica Roma.
2) Il famosissimo e l’ultra blasonato “Metropolis Pt. 2: Scenes fom a Memory” dei Dream Theater, che ha come tema principale proprio la reincarnazione o trasposizione dell’anima. Coincidenze? Non spetta certo a me dirlo, ma facendo parte di una band progressive e avendo speso più di 8 anni nella realizzazione di un “concept”, avrei tenuto in considerazione che tali opere sono di difficile composizione e raramente ripetibili anche dalle band più famose (“Promise Land” dei Queensryche è una rara eccezione).
L’album è composto da tredici tracce che spaziano dal metal al pop inserendo elementi blues e dance con leggeri sprazzi di psichedelia.
La prima song “Fuori di me” apre molto bene, un arpeggio pulito e accattivante aleggia tra le partiture moderate e gradevoli della batteria che permettono armoniosamente l’inserimento di basso, tastiera e synth. Sono stupito e direi che: la band è riuscita a creare la giusta atmosfera e l’ascoltatore è pienamente immerso nel pezzo; ma all’improvviso il passaggio in distorto e i vorticosi “pseudo voli del calabrone”, interrompono la magia catapultando l’ascoltatore all’interno della strofa. Questa risulta buona e incisiva, cantata bene, probabilmente la parte cantata meglio di tutto l’album. Parallelamente alla voce, anche le parole sposano bene con la frenesia del pezzo “Butto i sogni di una vita sorseggiando un‘evasione”. Giunti al ritornello si ha un ulteriore cedimento, questa volta la responsabilità è tutta sull’armonizzazione vocale che sulle parti alte risulta ovattata, strozzata e poco calibrata, in sintesi: non piacevole per l’ascoltatore.
Segue “Un filo d’erba”, che ricorda un po’ i Marillion (band di probabile ispirazione del trio). La canzone dal punto vocale è incerta e inespressiva. Non si capisce se tali scelte siano volute o meno, ma il pezzo è cantato con poca voglia e scarsa interpretazione dall’inizio alla fine. Inoltre la non variegata struttura strumentale non ne facilità l’ascolto che dura oltre i 5 minuti.
L’album sembra prendere una piega differente con la traccia numero 3, “A morte!”. Le atmosfere pittoresche delineano nell’immaginario dell’ascoltatore una sorta di Eliseo medioevale, fino a quando un coro di voci richiama al risveglio e introduce una bella linea vocale; azzeccati e perfettamente a tema i rintocchi del basso. “Sedia elettrica per chi ha stuprato la poesia!” Il pezzo funziona ed è decisamente progressive, un prog all’italiana basato sulle sonorità e l’interpretazione e che abbandona tecnicismi inutili e fini a se stessi!
Si continua con la traccia 4 che funge da gradevole intermezzo; il brano espleta il compito di far capire che il protagonista della nostra storia, una volta morto, si trova in una sorta di limbo e continua a percepire tutto ciò che lo circonda pur essendo incapace di comunicare; le scelte musicali sono a tema e tutto risulta ben bilanciato, il disco sembra delineare i canoni sonori e tecnici della band.
Proprio quando la storia inizia a farsi più interessante, I L.E.S. perdono le redini dell’armonia sonora arduamente domata con “A Morte” e “Pausa”. Ahimè, le tracce 6 e 7 fanno crollare vertiginosamente il valore del prodotto finale in quanto sono realizzate in modo impreciso e sconclusionato. Inizialmente ho pensato che certe scelte fossero intenzionali, ma nonostante i ripetuti ascolti non son riuscito a trovare una possiibile e valida giustificazione. Segue una spiegazione dettagliata per i più interessati ma non per le persone particolarmente suscettibili.
Traccia 6 – “L’amore che non ho avuto” tenta di esporre tematiche interessanti nelle lyrics; ma la performance vocale è drastica e nei ritornelli proprio inascoltabile. Come se non bastasse sono presenti anche imprecisioni ed evidenti errori tecnici dal punto di vista strumentale (attacchi, stacchi e cambi di tempo).
Traccia 7 – “La preda” non si capisce proprio dove voglia andare a parare. Parte con poca potenza e scarsa precisione, manca l’impatto. Il pezzo dovrebbe essere Thrash ma chiaramente non lega con quelle che sono le caratteristiche tecniche, sonore e fisiche della band. È palese che i tre manchino di potenza, non capisco dunque il perché di tale scelta se non il voler inseirire forzatamente differenti generi musicali per creare un qualcosa di “progressivamente” originale. A rincarare la dose ci pensa il cantato che risulta atono e fuori tonalità, nelle parti basse fa addirittura accapponare la pelle. (Essendo quest’ultimo un punto molto palese, mi sono indotto a pensare che tale scelta volesse intenzionalmente trasmettere una stravagante e bizzarra sensazione, se questa era l’intenzione mi dispiace, il bersaglio è stato mancato in pieno).
La Traccia 8 rialza leggermente il tiro in quanto è la più riuscita dal punto di vista organico e strumentale. Come si suol dire: “non è mai troppo tardi”, anche se questa volta potrebbe essere l’eccezione che conferma la regola, dato che molti ascoltatori, giunti nel mezzo del cammin, avranno probabilmente lasciato le speranze una volta entrati in questa selva oscura. Eh sì cari lettori, siamo già a metà del disco e per ora la band ha trasmesso poca chiarezza e coerenza nella logica delle proprie scelte. “Nuvola” è un pezzo calmo e vellutato che si accompagna armoniosamente tra piano chitarra e batteria; il cantato non è brillante, ma l’effetto corale ne rende gradevole l’ascolto durante tutti e 5 i minuti. La band conferma ancora una volta di essere a proprio agio seguendo il filone prog degli anni 70 (Pink Floyd/P.F.M./Area).
Evitando commenti sulla traccia 9, eccoci giunti alla title track: “Metempsicosis” che in greco significa “passaggio delle anime”. La canzone risulta una pacchianata, 2/3 sono realizzati al computer inclusi gli inverosimili assoli di tastiera. 6 minuti e 40 secondi di masturbazione musicale senza un nessun perché. Uno pseudo-prog volto all’esibizionismo con la complicità di finte capacità tecniche.
Concludono l’album “Baco” e “L’ultima Morte”. La prima si consuma attorno ad un tema di piano che pur essendo interessante e tecnicamente ben eseguito, risulta eccessivamente ripetuto, gradevole per un paio di ascolti. Per ciò che concerne la voce, le armonizzazioni alte risultano migliori e più colorate delle basse. Non sono presenti gravi stonature ma le chiusure non sono curate, specialmente sulle note tenute. Le parti soliste sono gradevoli, ma la registrazione della chitarra rimane poco potente e priva di suono, creando uno sbilanciamento sonoro tra tastiera e chitarra.
“L’ultima morte” è un pezzo un po’ meglio definito, curato ed eseguito anche se si perde lungo il cammino dei suoi 11 minuti. La differenza fra la traccia XIII e il resto dell’album è ancor più marcata dall’inserimento di una bella voce femminile, Elena Giachi. L’alternarsi delle due voci, rende palese la mancanza più grande di tutto l’album, ossia qualcuno in grado di cantare e interpretare, far sentire, arrivare, esprimere, respirare emozioni. Durante i ripetuti ascolti di “Metempsicosis” mi son trovato a dover cercare giustificazioni/motivazioni o a biasimare il cantante per evidenti e palesi lacune. Badate bene che il mio giudizio prescinde dalla timbrica e dall’estensione, ma non dalle capacità ritmiche, tecniche e interpretative che sono la base per un buon cantato.
Concludo dicendo che “Metempsicosis” è un album difficile, che se saputo ascoltare può risultare a tratti interessante e piacevole, tuttavia l’effetto non dura mai troppo a lungo.
Le giustificazioni e i problemi tecnici enunciati nella biografia non possono essere accettati, visti gli 8 anni di lavorazione che francamente sono davvero troppi per un prodotto di simile taratura.
Sotto un’ottica oggettiva, l’album si percepisce come frutto di immaturità, mancata esperienza e coesione di gruppo senza volontà di identificare gli elementi che sarebbero da ottimizzare e quelli che invece sarebbero da sradicare completamente in concomitanza con le capacità della band, questo al fine di riuscire a fare le cose in maniera professionale andando oltre il packaging o il sito web!
Più che badare alla confezione e al libretto si sarebbe potuto indubbiamente spendere tempo e denaro riregistrando tutto l’album e soprattutto riarrangiando le parti mal riuscite o poco adatte alle capacità della formazione.
Considerando che attualmente la realizzazione di un disco underground è alla portata di tutti, troppe band si nascondono dietro immagine e copertina; e solo in pochi tentano di trasmettere qualcosa di vero e sentito, che può avvenire con 4 accordi e una semplice melodia!
Ne segue che gli sforzi e i compromessi nella realizzazione di un “concept” vanno al di là dello scrivere una storia a tema componendo un numero di tracce corrispondenti alla XIII ora che sta per scoccare in copertina, idea che per quanto buona e significativa viene totalmente vanificata dalla scarsa realizzazione sonora del progetto.
L’ultima nota riguarda i testi, la Lingua Italiana è sicuramente un punto a favore: non sono molte le band che decidono di usare la nostra lingua come mezzo di espressione. In alcune parti l’ascoltatore riesce a immergersi nel pieno della storia che tuttavia si dipana in maniera troppo descrittiva con conseguente apatia.
Paolo Prosil